I testi in versi di Filippo di Novara sono inseriti all’interno della cronaca della guerra di Cipro come le due canzoni contenute nella Continuation Rothelin (si veda il commento alla canzone RS 164 di Philippe de Nanteuil) e condividono con esse anche alcune caratteristiche formali come l’assenza di qualche verso e la forma metrica non impeccabile (rime irregolari, ipometrie e ipermetrie varie), che del resto l’autore stesso ammette nell’excusatio finale (vv. 82-85). Come e più delle liriche della crociata dei Baroni, le rime di Filippo non si possono ridurre ad una pura documentazione dei fatti accaduti, ma sono parte integrante degli avvenimenti raccontati nella cronaca, all’interno dei quali rivestono una funzione specifica, contribuendo ad orientarli e a modificarli (richiesta di soccorso, ostentazione di spavalderia, strategia di esasperazione degli avversari). Filippo sostiene di averle composte per l’occasione, e per questo le inserisce nella cronaca, oltre che per dare varietà e vivacità alla narrazione.

I testi in versi formano un gruppo piuttosto omogeneo che si trova in una sezione limitata della cronaca, tra i par. 47 e 57, riferiti agli eventi ciprioti tra le estati del 1229 e del 1230; essi sono uniti anche dal ricorso al paragone con i personaggi renardiani, che viene introdotto per la prima volta nel par. 46, appena prima della lettera metrica. In essa infatti Amerigo Barlais viene assimilato alla volpe protagonista del Roman de Renart, mentre Filippo il cantore sceglie per sé l’immagine lirica dell’usignolo; nelle canzoni successive Filippo si riferirà ad Amerigo unicamente col nome di Renart e integrerà nuovi riferimenti come quello a Maucrois (Maupertuis), fino alla creazione di una vera e propria branche del Roman de Renart (par. 57), dove tutti i protagonisti vengono assimilati a personaggi renardiani (va ricordato che un riferimento al Roman de Renart si trova già nella tenzone-sirventese BdT 438.1 di Taurel e Falconet, datata al 1215-1216).

Le rime di Filippo da Novara sono caratterizzate dall’imitazione delle diverse forme che contraddistinguono i generi e i sottogeneri della letteratura in versi, proprie soprattutto della tradizione occitanica: il primo testo imita la forma epica della chanson de geste, seguono un sirventese, una canzone, un’alba e la branche del Roman de Renart. Si tratta forse di uno sfoggio di erudizione da parte dell’autore che intende mettere in evidenza le sue conoscenze e abilità letterarie; questo elemento, unitamente al carattere in parte autocelebrativo della cronaca e al contenuto delle stesse rime, contribuisce ad esaltare (e forse ad amplificare) il ruolo attivo e fondamentale di Filippo di Novara nelle vicende che ha deciso di raccontare. Lo stile personale della cronaca è confermato dalla presenza all’interno delle rime di numerosi elementi ludici e comici che conferiscono all’insieme un carattere ironico e satirico arrivando fino alla soglia della parodia; tali elementi rivelano il gusto della sfida e della provocazione dell’autore e fanno risaltare la superiorità dei vincitori attraverso la denigrazione degli avversari.

I testi in versi di Filippo di Novara, benché riguardino sostanzialmente una guerra di potere tra cristiani, non possono essere separati dal contesto delle crociate in Terra Santa, poiché gli eventi della guerra di Cipro risultano strettamente legati ai personaggi e ai destini degli stati latini d’Oriente e in alcuni casi esercitano un’influenza diretta sulle crociate, in particolare su quella intrapresa dall’imperatore Federico II. In almeno due casi le rime sono indirizzate a destinatari che si trovano nel regno di Gerusalemme e l’autore stesso tende a sottolineare nella forma, nello stile o nel contenuto le affinità con le canzoni di crociata tradizionali. Per questo motivo, con la sola eccezione della branche del Roman de Renart, necessariamente esclusa a causa della sua forma prettamente narrativa, si propone qui una riedizione di tutti gli altri testi in versi, compresa la lettera metrica che, malgrado la scelta delle lasse di alessandrini, non è separabile dagli altri testi in quanto inaugura il paragone renardiano, introduce elementi che verranno sviluppati nelle altre canzoni e ricorre a formule che sembrano rimandare volutamente allo stile delle canzoni di crociata.

Come si è detto, essa è scritta nel metro tipico della chanson de geste del XIII secolo, ma non si può escludere un’influenza della lettera epica di Raimbaut de Vaqueiras a Bonifacio I di Monferrato (si veda in particolare l’incipit in forma di salut, caratteristico della forma epistolare), come già segnala Melani 1994, p. 47. Si ricorda che la lettera è una richiesta di soccorso inviata agli Ibelin in Terra Santa e contiene numerose esortazioni a Baliano, figlio di Giovanni, calcate su analoghe forme contenute nelle canzoni di crociata (si veda il commento ai versi 17, 45-48 e 55). Uno dei probabili tratti parodici, oltre al contrasto tra la forma epica e i tratti comici e grotteschi con i quali sono descritti i cinque balivi, potrebbe essere costituito proprio dal capovolgimento della direzione del viaggio: se nelle esortazioni contenute nelle canzoni di crociata si invita a prendere senza indugio la via della Terra Santa, in questo caso il percorso al quale Filippo esorta gli Ibelin va dal regno di Gerusalemme a Cipro.

2-3Allusione al fatto che Filippo si è rifugiato presso gli Ospedalieri; la croce bianca sull’abito rosso è infatti caratteristica di quell’ordine cavalleresco.

5-6L’autore fa riferimento alla situazione della Spagna, divisa nei cinque regni di Castiglia, León, Aragona, Navarra e Portogallo.

6I cinque balivi sono Amerigo Barlais, Amalrico di Betsan, Galvano di Chenichy, Guglielmo di Rivet e Ugo di Gibelet.

10Per longaigne ‘latrina, cloaca’, qui metafora per ‘prigione’, si veda la nota di Melani e TL 5, 639, 7ss.

11Il riferimento è al banchetto di Limassol di fine luglio o inizio agosto del 1228 durante il quale Federico II tentò di costringere Giovanni d’Ibelin a rinunciare alla reggenza di Cipro e al feudo di Beirut, minacciandolo con le armi.

13-14Filippo ironizza sull’atterramento subito da Amerigo Barlais durante il duello con Ancello di Brie (par. 26, 8). Su Ancello di Brie, lontano cugino di Giovanni d’Ibelin e suo alleato, si veda il par. 19 e Melani 1994, p. 262 n. 56. Filippo lo menziona in modo diretto ai vv. 28 e 33.

17I numerosi riferimenti e appelli a Dio contenuti nel testo (vv. 17, 26, 31, 49, 53, 55, 68, 71 più quello satirico alla formula della messa del v. 36) sono un tratto tipico delle canzoni di crociata, ma anche dei canti epici sulla crociata.

18Variante del proverbio registrato con il n. 1376 nei repertori di Morawski 1925 e Schulze-Busacker 1985; in entrambe le citazioni letterarie riportate dai repertori, il proverbio viene usato per esprimere la certezza di una sconfitta o di una punizione meritata e inevitabile. Si veda Partonopeus 7080 e ChTroyes, Conte du Graal (ed. Busby), 2497, dove feste rima con tempeste.

20Il verso si riferisce alla richiesta di un regolare pronunciamento giudiziario della corte da parte di Filippo (par. 45).

21Questo verso abbondantemente ipermetro nel manoscritto ha suscitato vari tentativi di restauro (si veda Melani 1994, p. 282, n. 181). A mio parere il verbo esgarderent è una forma con «prefisso es- intensivo pleonastico (?)» da aggiungere ai casi segnalati da Melani 1994, p. 62 che il copista ha frainteso aggiungendo una specie di glossa per giustificarlo. L’aggiunta sarebbe stata fatta per conciliare il senso del verso con l’interpretazione di esgarder nello stesso senso di esgart del verso precedente (“concedere un processo, un giudizio”). In questo caso invece il verbo (es)garderent potrebbe avere il senso di “tenere sotto sorveglianza, guardare a vista” (riprendendo in questo modo quanto detto al v. 12), che renderebbe superflua la parte lor dy je tant qu(e), senza la quale il verso è perfettamente regolare. Tale ricostruzione sembra peraltro rispettare gli eventi descritti dalla prosa, in particolare al par. 44, 34. Ma non si può escludere che il manoscritto di Torino fonda insieme i resti di due alessandrini della versione originale impossibili da ricostruire.

27Si tratta evidentemente di Baliano d’Ibelin, figlio di Giovanni e signore diretto di Filippo di Novara.

28Su Ancello di Brie si veda la nota ai vv. 13-14.

33-36L’autore continua a riferirsi al duello tra Ancello di Brie e Amerigo Barlais, che fu interrotto da Giovanni d’Ibelin per evitare che Ancello uccidesse l’avversario.

37Paris – Mas Latrie e Kohler correggono se in le e suppongono la caduta del verso successivo. La soluzione conservativa di Melani è un po’ laboriosa, dato che prevede un forte enjambement sintattico tra una lassa e l’altra, ma sostanzialmente si può accettare. Pare sospetto però che questa sia l’unica lassa composta di soli tre versi, mentre numerose sono le lasse di quattro versi. L’eventuale lacuna potrebbe peraltro riguardare il verso precedente il 37.

38-39Filippo ricorda a Baliano la prigionia sofferta insieme al fratello Baldovino, allorché Giovanni d’Ibelin fu costretto a lasciare i figli in ostaggio a Federico II (par. 32).

44Si tratta dell’unico caso di assonanza semplice in questo testo, ma si veda anche ensemble in una serie di rime -endre al v. 31 di RS 184a, nonché la rima Ysengrin-autreci ai vv. 29-30 della branca del Roman de Renart.

45-48Inizia qui l’esortazione a Baliano strutturata nel modo tipico delle canzoni di crociata, con la menzione dell’esempio degli avi valorosi, l’esortazione ad un comportamento coraggioso e l’ammonizione sulle possibili conseguenze di una condotta attendista o pavida (si veda per esempio Hugues de Berzé RS 37a, 20 e Aimeric de Peguilhan BdT 10.11, 51-53; anche in questo caso curiosamente tra gli avi valorosi vengono evocati solo zii).

47-49Filippo di Novara ricorda a Baliano il comportamento valoroso del prozio Filippo di Nablus e dello zio Filippo d’Ibelin, fratello di Giovanni e già reggente di Cipro, morto da poco. Filippo di Milly, detto anche Filippo di Nablus, fu al suo tempo uno dei baroni più influenti del regno di Gerusalemme; egli partecipò all’assedio di Ascalona nel 1153 e alla riconquista di Banyas nel 1157. Entrato nei Templari nel 1166, appoggiò la campagna d’Egitto del 1167-1168 voluta dal re di Gerusalemme Amalrico I e vi partecipò distinguendosi in battaglia (si veda il par. 106 e Melani 1994, p. 310 n. 427); in seguito a questi eventi fu eletto gran maestro dell’ordine dei Templari (su Filippo di Nablus si veda Barber 2003).

50Baldovino d’Ibelin (c. 1133 – 1186/1188), signore di Mirabel e di Rama, zio paterno di Giovanni e grande avversario di Guido di Lusignano.

54Sorprende la presenza di due presenti indicativi al posto del congiuntivo, ma si preferisce seguire Melani e non correggere, come fanno invece Paris – Mas Latrie e Kohler. Si tratta infatti di una frase esortativa o ottativa contenuta in un periodo ipotetico, che può in alcuni casi ricorrere all’indicativo quando intende esprimere un futuro certo e indubitabile (si veda Jensen, § 977).

55Il senso di questa allusione dell’autore sembra volutamente ambiguo. Potrebbe trattarsi nuovamente del capovolgimento di un cliché tipico delle canzoni di crociata: quello dell’amore alla propria terra (che in genere nelle canzoni è anche il luogo dove si trova l’amata; si veda per esempio RS 1582, 1-3 e 25-27) opposto al dovere del servizio a Dio. In questo caso Filippo, invertendo la direzione dell’itinerario consueto, chiederebbe agli Ibelin di mettere da parte per un momento il loro amore per la Terra Santa e di correre in soccorso di Cipro. Ma la presenza della forma plurale vos amors lascia aperta l’ipotesi che non si tratti in questo caso di un riferimento all’amore per la terra o per la dama cortese, ma piuttosto di un’allusione pesantemente ironica alla presenza ad Acri di un alto numero di prostitute, chiamate ad allietare i lunghi soggiorni dei crociati in attesa delle azioni militari, com’è segnalato in numerose cronache e documenti del tempo (sono note a questo proposito le testimonianze di Joinville, § 171 su Damietta e di Imad al-Din, §§ 228-230 proprio su Acri). Anche se lo statuto morfologico particolare del sostantivo amor (a volte usato al plurale per il singolare) lascia aperte entrambe le interpretazioni, i vv. 61-62 sembrerebbero confermare la seconda ipotesi, perché l’autore suggerisce agli Ibelin di dimostrare il loro amore per il gentil sesso liberando le donne di Cipro assediate a Nicosia.

56-60È difficile interpretare questi versi che presentano senza dubbio delle lacune. Tutti gli editori concordano nel supporre un verso mancante dopo il v. 59; una precedente lacuna veniva localizzata da Paris – Mas Latrie e Kohler dopo il v. 58, mentre Melani la colloca con più verosimiglianza dopo il v. 56. Resta il fatto che nell’insieme le frasi espresse dall’autore sono sintatticamente tronche e il loro senso non è ricostruibile congetturalmente. Secondo i primi editori taissel del v. 56 si riferisce già al personaggio del tasso nel Roman de Renart. Tale forma avrebbe però quest’unica attestazione nel senso di “tasso” (si veda Godefroy 8, 631a e FEW XIII/1, 145b) e secondo Melani, che si fonda soprattutto sugli esempi dell’espressione «la compaignie Tassel» (TL 10, 133, 36ss. e Tauno F. Mustanoja, «La compagnie tassel», Neuphilologische Mitteilungen, 66, 1965, pp. 493-495) esso ha piuttosto il senso generale di “traditore” e si riferisce a Amerigo Barlais e non già all’altro balivo Amalrico di Betsan, che verrà in seguito identificato proprio con Grimberto, il tasso renardiano (si veda Melani 1994, pp. 283-284, n. 195). Va detto però che alcuni fattori sembrano indebolire l’interessante congettura di Melani e far preferire l’interpretazione più tradizionale degli altri editori, anche se il senso della frase resta poco chiaro: al v. 76 il binomio taissel-leupart sembra proprio insistere sulla metafora animalesca, per sottolineare la reale pochezza di chi si crede un combattente valoroso (e in quest’ottica acquista un senso anche il diminutivo taissel); allo stesso modo la coppia Grimbers et Renart del v. 62 pare riprendere il riferimento al taissel e al goupil dei versi precedenti; inoltre il nome proprio Tassel col senso di “traditore” attribuitogli da Melani (da far risalire probabilmente al duca Tassilo II di Baviera; Oscar Schultz, «Faire compaignie Tassel», Archiv für das Studium der neueren Sprachen und Literaturen, 91, 1893, pp. 241-247 e FEW XVII, 638a) non si trova mai al di fuori dell’espressione «compaignie Tassel» studiata da Mustanoja e da Schultz. Va detto infine che suona strano in questo verso l’accostamento di Baliano d’Ibelin e di un nemico in quella che sembrerebbe una coppia di soggetti di un medesimo verbo. Si potrebbe quindi pensare a una svista del copista a partire da una forma dant Ancel del modello, ad indicare ancora una volta Ancello di Brie; ma l’assenza del verso successivo non permette di sapere come si conclude la frase, e il fatto che la cronaca di Filippo di Novara presenti sempre esclusivamente la forma messire Anceau rende la congettura poco plausibile.

58Ennesimo riferimento al duello di Ancello di Brie con Amerigo Barlais e al disarcionamento di quest’ultimo; il liart è infatti un tipo di cavallo di colore grigio (cfr. TL 5, 392, 46ss.).

59La frase resta sospesa e il senso non è chiaro, ma Longuebart è la designazione tipica dei sostenitori della fazione imperiale (si vedano i par. 50, 62, 63, 64, 66, 67).

61Mi pare convincente l’integrazione di qui operata da Melani, che interpreta il secondo emistichio in riferimento ai disagi patiti dalle donne durante l’assedio di Nicosia.

62Primo accenno esplicito ai personaggi del Roman de Renart, forse anticipato dall’evocazione del tasso e della volpe nei versi precedenti.

66Lombart designa l’autore stesso con il senso di “originario dell’Italia del Nord”, com’è ribadito anche all’inizio del par. 48 della cronaca.

67Gli epiteti rivolti da Filippo al proprio signore fanno parte del repertorio retorico tipico di alcuni sirventesi occitanici e sono giustificati per questo (si vedano per esempio i testi BdT 76.9 e 76.15 indirizzati dal trovatore Bertran d’Alamano a Carlo d’Angiò). Essi si aggiungono alle parole forti dei vv. 52-54 e all’allusione pesante dei vv. 55-56, ma non è da escludere che l’esortazione accorata di Filippo abbia anche un carattere comico, all’interno di una sorta di gioco retorico di ammiccamenti che dovevano essere compresi come tali dai destinatari; non si spiegherebbe altrimenti come mai la lettera fu letta e accolta con ilarità ad Acri, secondo le parole dello stesso Filippo (par. 48, 1: «Ceste rime fu receüe á Acre á mout gran joie, et tous crierent: “Or tost á la rescouse des dames et dou Lombart!”»).

71Il glossario di Kohler presume che que qui tart sia il nome di un gioco infantile, del quale però non si hanno altre segnalazioni. Potrebbe trattarsi semplicemente dell’espressione diffusa que qu’i tart “benché tardivo”, applicato ironicamente al comportamento tardivamente infantile dei balivi.

74Il balivo Ugo di Gibelet, che a causa della caratteristica bocca storta verrà in seguito identificato con il personaggio renardiano della scimmia Eme.

77In questo testo solo Amerigo Barlais è sistematicamente identificato con la volpe del Roman de Renart. Per il senso di dester si veda Melani 1994 p. 284 n. 204. L’introduzione della s finale che rende la rima imperfetta potrebbe non essere necessaria, viste le libertà grammaticali che l’autore si concede in altri casi (si veda enclin e farrin nella stessa posizione ai vv. 51-52 e anche mau al v. 32), anche se in questo caso c’è il determinativo plurale des.

82-85La lettera si chiude con un tradizionale commento riassuntivo sulle qualità di rimatore dell’autore e sulla natura dei versi, seguendo l’esempio di molte canzoni trobadoriche.

83L’autore non vuole necessariamente dire che questa è la sua prima composizione poetica, ma più probabilmente che si tratta di una prima redazione destinata ad essere perfezionata. Per sanare l’ipometria del secondo emistichio si accetta l’integrazione di Melani, più semplice e meno invasiva delle altre.

85Il riferimento alle rime equivoche o leonine potrebbe non avere un valore esclusivamente formale, ma suggerire che i successivi componimenti in versi di Filippo saranno maggiormente impregnati di ironia e di sarcasmo.